Proprio così: a dispetto delle politiche di
tagli selvaggi alla spesa pubblica, il governo
conservatore si prodigherà per celebrare i cento anni dallo scoppio della guerra nel 1914 –
una guerra che, nei quattro anni successivi, costò almeno otto milioni e mezzo di vite (un numero di vittime superiore a quello di tutte le guerre europee dei
due secoli precedenti), lasciò sei milioni e mezzo di persone mutilate e otto
milioni di bambini orfani. La vita nelle trincee della prima guerra mondiale
era talmente orribile da spingere circa 10.000 soldati italiani ad
automutilarsi pur di venir congedati (ad attenderli sarebbe invece stato un
processo). Come scrisse Rosa Luxemburg nel 1915, quei soldati non erano altro che “carne
da cannone” per politici, affaristi e generali, gli unici ad avere qualcosa da
guadagnare dal conflitto. Eppure, secondo Cameron, le sofferenze disumane di
soldati e civili andrebbero lette come “il sacrificio che un’intera generazione
ha fatto per noi”, per le generazioni a venire.
Dipingendo la prima guerra mondiale come una "guerra per la democrazia" ante litteram, il
discorso di Cameron mette involontariamente a nudo due tratti essenziali della
visione del mondo della classe dirigente britannica: da un lato, la
glorificazione della storia patria (e, più specificamente, della storia militare)
come elemento fondativo dell’identità nazionale britannica; dall’altro, la legittimazione “umanitaria” dell’intervento militare all’estero.
A differenza della maggior parte dei paesi
dell’Europa continentale, in Gran Bretagna sembra essersi radicata una
narrazione sostanzialmente condivisa (quella, si potrebbe dire, del paese vincitore,
mai soggetto ad occupazione straniera) dei due conflitti mondiali
novecenteschi. Tanto nel 1914-1918, quanto nel 1939-1945, il paese si sarebbe
schierato dalla parte giusta, difendendo una serie di valori e diritti
fondamentali, veri e propri pilastri dell’identità nazionale – prima di tutto
“freedom” e “democracy”. Di fronte alla minaccia delle autocrazie continentali
(prima di tutto, quella germanica), il paese avrebbe mantenuto un atteggiamento
orgoglioso e austero (“stern and silent pride”), in linea col (presunto) “carattere
nazionale” britannico “stiff upper lip”. Ancora a inizio ventunesimo secolo,
istituzioni come l’Imperial War Museum di Londra, ma anche film come War Horse e campagne come quella del Poppy Appeal (una raccolta fondi per i reduci di
guerra britannici organizzata ogni anno), contribuiscono a fare del
(vittorioso) passato militare un elemento portante dell’identità nazionale
britannica contemporanea.
Uno degli aspetti più controversi di questa
lettura della storia britannica novecentesca sta nel nesso che viene stabilito
(più o meno esplicitamente) tra guerra e difesa dei valori democratici. Si
tratta di una retorica che trova un suo apparente fondamento nel ruolo giocato
dalle truppe britanniche nel conflitto del 1939-1945, ma che è stata e continua
ad essere usata in modo del tutto pretestuoso per legittimare interventi militari all’estero e
mascherare gli interessi delle elite politiche ed economiche britanniche – dalla
guerra nelle Falklands, vero e proprio salvagente elettorale per Margaret
Thatcher, a quella voluta da Tony Blair per il petrolio in Iraq.
E’ in linea con questa retorica dell’intervento che si colloca l’interpretazione data da
Cameron della prima guerra mondiale come una “guerra per cessare tutte le
guerre”. A cento anni di distanza, una simile interpretazione rappresenta un
vero e proprio rovesciamento della realtà: la guerra 1914-1918 rappresentò, essenzialmente,
la resa dei conti tra una potenza imperiale in fase declinante (l’impero
britannico) ed un’altra in prepotente ascesa (la Germania guglielmina). A
dimostrazione degli interessi di natura geopolitica che furono alla base di
quella guerra c’è non solo la rapacità con cui francesi ed inglesi si
spartitono i resti dell’Impero ottomano in Medio Oriente al termine del
conflitto; ma anche, e soprattutto, il trattato di Versailles, che impose
condizioni estremamente punitive alla Germania, aprendo di fatto la strada
all’ascesa del nazismo e alle barbarie della seconda guerra mondiale, che
sarebbe costata oltre 70 milioni di vite.
Il tentativo del governo britannico di
eroicizzare e nobilitare la carneficina del 1914-1918 ha una matrice
smaccatamente ideologica, se per ideologia s’intende la concezione del mondo propria di una
determinata classe sociale – in questo caso, l’upper class britannica, nostalgica (neppure troppo velatamente) dei
bei tempi andati, quando sull’Impero britannico il sole non tramontava mai, e i
soldati di sua maestà venivano spediti oltremare per compiere la loro “missione
civilizzatrice” (e rimpinguare le casse delle compagnie britanniche). A livello politico, è evidente lo sforzo di
giocare la carta dell’orgoglio e unità nazionale per distogliere l’attenzione dell’opinione
pubblica dalle brutali politiche di austerità del governo conservatore.
Mentre in Gran Bretagna ci si prepara a
celebrare lo scoppio della prima guerra mondiale, la tragicità e l’insensatezza
di quel conflitto ce le ricorda Emilio Lussu – interventista della prima ora,
poi ricredutosi di fronte al cinismo dei generali e all’efferatezza della vita
in trincea - nel suo Un Anno sull’Altipiano
:
“I feriti del battaglione erano stati, in
grande maggioranza, trasportati indietro … Avellini, fra i più gravi, era
rimasto nell’ospedale da campo. Egli era intrasportabile. Era rimasto ferito
nelle trincee nemiche, alla testa della sua compagnia, e le ferite erano gravi.
Aveva perduto un occhio, ma la ferita più grave era quella riportata all’addome
. …
Io rifeci la strada, per rientrare al comando.
Come mi appariva triste, la vita. Anche Avellini se n’era andato … Ancora una
volta, rimanevo solo io. Tutti se n’erano andati, ancora una volta. E ora
dovevo cercare delle lettere, raccontare, spiegare. Non è vero che l’istinto di
conservazione sia più forte della vita. Vi sono dei momenti, in cui la vita
pesa più dell’attesa della morte.”