martedì 6 novembre 2012

Celebrare la carneficina: Il governo britannico e il centenario della prima guerra mondiale




“Una guerra per cessare tutte le guerre” – questa sarebbe stata, nelle parole del primo ministro britannico David Cameron, la prima guerra mondiale. A detta di Cameron, quella guerra rappresenterebbe “una componente  fondamentale della coscienza nazionale” britannica – di qui la decisione del governo britannico di stanziare 50 milioni di sterline per commemorare il centenario del conflitto nel… 2014. 

Proprio così: a dispetto delle politiche di tagli selvaggi alla spesa pubblica, il governo conservatore si prodigherà per celebrare i cento anni dallo scoppio della guerra nel 1914 – una guerra che, nei quattro anni successivi, costò almeno otto milioni e mezzo di vite (un numero di vittime superiore a quello di tutte le guerre europee dei due secoli precedenti), lasciò sei milioni e mezzo di persone mutilate e otto milioni di bambini orfani. La vita nelle trincee della prima guerra mondiale era talmente orribile da spingere circa 10.000 soldati italiani ad automutilarsi pur di venir congedati (ad attenderli sarebbe invece stato un processo). Come scrisse Rosa Luxemburg nel 1915, quei soldati non erano altro che “carne da cannone” per politici, affaristi e generali, gli unici ad avere qualcosa da guadagnare dal conflitto. Eppure, secondo Cameron, le sofferenze disumane di soldati e civili andrebbero lette come “il sacrificio che un’intera generazione ha fatto per noi”, per le generazioni a venire.

Dipingendo la prima guerra mondiale come una "guerra per la democrazia" ante litteram, il discorso di Cameron mette involontariamente a nudo due tratti essenziali della visione del mondo della classe dirigente britannica: da un lato, la glorificazione della storia patria (e, più specificamente, della storia militare) come elemento fondativo dell’identità nazionale britannica; dall’altro, la legittimazione “umanitaria” dell’intervento militare all’estero.

A differenza della maggior parte dei paesi dell’Europa continentale, in Gran Bretagna sembra essersi radicata una narrazione sostanzialmente condivisa (quella, si potrebbe dire, del paese vincitore, mai soggetto ad occupazione straniera) dei due conflitti mondiali novecenteschi. Tanto nel 1914-1918, quanto nel 1939-1945, il paese si sarebbe schierato dalla parte giusta, difendendo una serie di valori e diritti fondamentali, veri e propri pilastri dell’identità nazionale – prima di tutto “freedom” e “democracy”. Di fronte alla minaccia delle autocrazie continentali (prima di tutto, quella germanica), il paese avrebbe mantenuto un atteggiamento orgoglioso e austero (“stern and silent pride”), in linea col (presunto) “carattere nazionale” britannico “stiff upper lip”. Ancora a inizio ventunesimo secolo, istituzioni come l’Imperial War Museum di Londra, ma anche film come War Horse e campagne come quella del Poppy Appeal (una raccolta fondi per i reduci di guerra britannici organizzata ogni anno), contribuiscono a fare del (vittorioso) passato militare un elemento portante dell’identità nazionale britannica contemporanea. 

Uno degli aspetti più controversi di questa lettura della storia britannica novecentesca sta nel nesso che viene stabilito (più o meno esplicitamente) tra guerra e difesa dei valori democratici. Si tratta di una retorica che trova un suo apparente fondamento nel ruolo giocato dalle truppe britanniche nel conflitto del 1939-1945, ma che è stata e continua ad essere usata in modo del tutto pretestuoso per  legittimare interventi militari all’estero e mascherare gli interessi delle elite politiche ed economiche britanniche – dalla guerra nelle Falklands, vero e proprio salvagente elettorale per Margaret Thatcher, a quella voluta da Tony Blair per il petrolio in Iraq.

E’ in linea con questa retorica dell’intervento che si colloca l’interpretazione data da Cameron della prima guerra mondiale come una “guerra per cessare tutte le guerre”. A cento anni di distanza, una simile interpretazione rappresenta un vero e proprio rovesciamento della realtà: la guerra 1914-1918 rappresentò, essenzialmente, la resa dei conti tra una potenza imperiale in fase declinante (l’impero britannico) ed un’altra in prepotente ascesa (la Germania guglielmina). A dimostrazione degli interessi di natura geopolitica che furono alla base di quella guerra c’è non solo la rapacità con cui francesi ed inglesi si spartitono i resti dell’Impero ottomano in Medio Oriente al termine del conflitto; ma anche, e soprattutto, il trattato di Versailles, che impose condizioni estremamente punitive alla Germania, aprendo di fatto la strada all’ascesa del nazismo e alle barbarie della seconda guerra mondiale, che sarebbe costata oltre 70 milioni di vite.

Il tentativo del governo britannico di eroicizzare e nobilitare la carneficina del 1914-1918 ha una matrice smaccatamente ideologica, se per ideologia s’intende la concezione del mondo propria di una determinata classe sociale – in questo caso, l’upper class britannica, nostalgica (neppure troppo velatamente) dei bei tempi andati, quando sull’Impero britannico il sole non tramontava mai, e i soldati di sua maestà venivano spediti oltremare per compiere la loro “missione civilizzatrice” (e rimpinguare le casse delle compagnie britanniche). A livello politico, è evidente lo sforzo di giocare la carta dell’orgoglio e unità nazionale per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalle brutali politiche di austerità del governo conservatore.

Mentre in Gran Bretagna ci si prepara a celebrare lo scoppio della prima guerra mondiale, la tragicità e l’insensatezza di quel conflitto ce le ricorda Emilio Lussu – interventista della prima ora, poi ricredutosi di fronte al cinismo dei generali e all’efferatezza della vita in trincea - nel suo Un Anno sull’Altipiano :  

I feriti del battaglione erano stati, in grande maggioranza, trasportati indietro … Avellini, fra i più gravi, era rimasto nell’ospedale da campo. Egli era intrasportabile. Era rimasto ferito nelle trincee nemiche, alla testa della sua compagnia, e le ferite erano gravi. Aveva perduto un occhio, ma la ferita più grave era quella riportata all’addome . … 

Io rifeci la strada, per rientrare al comando. Come mi appariva triste, la vita. Anche Avellini se n’era andato … Ancora una volta, rimanevo solo io. Tutti se n’erano andati, ancora una volta. E ora dovevo cercare delle lettere, raccontare, spiegare. Non è vero che l’istinto di conservazione sia più forte della vita. Vi sono dei momenti, in cui la vita pesa più dell’attesa della morte.”

venerdì 2 novembre 2012

Sommovimenti statici


Alle elezioni regionali siciliane del 28 ottobre scorso, meno della metà degli aventi diritto è andata a votare. Tra tutti i partiti, quello che ha raccolto la maggioranza relativa dei consensi è stato il movimento del Vaffanculo Day (sic). Alla sua guida, un comico genovese che pochi giorni prima delle elezioni si era cimentato nell'eroico attraversamento a nuoto dello stretto di Messina. La sinistra non è riuscita a superare la soglia di sbarramento.

Tra l'estate del 2011 e quella del 2012, la Sicilia è stata la regione italiana in cui si sono persi più posti di lavoro (oltre 35.000). Con un tasso di disoccupazione del 19,4%, la Sicilia è la seconda regione più "disoccupata" d'Italia (la prima è la Calabria).

"Quando la crisi non trova [una] soluzione organica, ma quella del capo carismatico, significa che esiste un equilibrio statico (i cui fattori possono essere disparati, ma in cui prevale l'immaturità delle forze progressive) che nessun gruppo, né quello conservativo né quello progressivo ha la forza necessaria, e che anche il gruppo conservativo ha bisogno di un padrone." (A. Gramsci, Quaderni del carcere, Q 13,  § 23)